Sebastian Schütze: Caravaggio. Das vollständige Werk, Köln: Taschen Verlag 2009, 306 S., ISBN 978-3-8365-0181-1, EUR 99,99
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In apertura di un anno che si annuncia ricco di eventi per la celebrazione del quarto centenario della morte di Michelangelo Merisi da Caravaggio in Italia e in Germania sono uscite almeno quattro monografie rilevanti dedicate al pittore, di cui due di autori italiani (Francesca Cappelletti: Caravaggio. Un ritratto somigliante, Electa 2009; Rossella Vodret: Caravaggio. L'opera completa, Silvana 2010) e due tedesche. Una scritta da Sybille Ebert-Schifferer: Caravaggio. Sehen-Staunen-Glauben. Der Maler und sein Werk, München 2009; l'altra dedicata al Merisi da Sebastian Schütze per i tipi della Taschen: Caravaggio. Das vollständige Werk, Köln 2009.
La monografia di Schütze si impone sulle altre non solo per le dimensioni ciclopiche e l'elegante formato, ma anche per l'altissima qualità di stampa, uscendo contemporaneamente in italiano, inglese, francese e spagnolo. Il volume è corredato da un importante apparato fotografico in cui i numerosi particolari delle opere, tutti a colori e spesso riprodotti in scala maggiore del naturale, lasciano leggere agevolmente segni incisi e stesura pittorica. Accompagnati da snelle ed esaustive schede delle opere, ripercorriamo l'intera opera del Merisi godendone visivamente anche l'evoluzione pittorica. Dopo un agevole saggio introduttivo, in cui l'autore privilegia l'indagine iconografica alle informazioni socio-culturali atte a definire l'ambiente in cui Caravaggio si formò e visse, Schütze offre un catalogo completo dell'opera del Merisi, o meglio di tutti quei dipinti la cui attribuzione, certa o solo presunta, presenti caratteri di credibilità . Non spaventato dall'idea di considerare le tante opere ricondotte, a ragione o torto, al nome del pittore, l'autore le esamina una per una fornendoci nella seconda parte del volume schede calibrate e dense di informazioni. Di ogni dipinto esamina i contenuti, ricorda fonti e documenti, ripercorre agilmente la vicenda attributiva e storica, esprime sempre una propria opinione sospendendo il giudizio solo in pochissime opere. La sezione dedicata al catalogo dei dipinti è divisa in due parti: una prima, nella quale sono state inserite le opere certe e documentate e le copie di dette opere aspiranti all'autografia (il che a onor del vero genera in un primo momento una certa confusione). Una seconda parte è invece riservata alle opere la cui attribuzione non ha trovato unanime condivisione o sufficienti prove documentarie. A tal proposito mi è sembrato poco coerente trovare il Narciso e il Ritratto di Giovan Battista Marino inseriti nella prima sezione e l'Ecce Homo di Genova, ormai rifiutato dal solo Ferdinando Bologna, nella seconda parte. Personalmente credo che la tela genovese abbia diritto di essere inserita nel primo gruppo, così come l'Incoronazione di spine di Prato. Avrei piuttosto riservato alla seconda parte le numerose copie presenti nella prima sezione, a partire dalla versione dei Bari di proprietà di Sir Denis Mahon che Schütze, a mio avviso correttamente, identifica come copia nonostante goda del riconoscimento di autorevoli studiosi.
La lettura del volume offre il gancio per proporre alcune brevi riflessioni su tre argomenti di grande interesse per chi si occupi di Caravaggio: il problema dei "doppi"; l'utilizzo del disegno come ausilio pittorico; la questione delle opere "rifiutate".
Schütze sembra individuare, tra le opere riconducibili al rango di copia, anche il Ragazzo morso dal ramarro della Fondazione Longhi entrando in questo modo a piedi uniti nella vexata quaestio dei doppi di Caravaggio. Le due versioni di questo soggetto, di cui l'altra è conservata a Londra, National Gallery, sono oggi ritenute dalla pressoché totale maggioranza degli studiosi entrambe autografe. Eppure buona parte di essi formalmente accoglie la tesi che Caravaggio non abbia mai prodotto doppi identici in tutti i particolari. Le due versioni del Suonatore di Liuto e della Buona Ventura ne sono un esempio eloquente, più volte citato, e risponde certamente allo stesso assunto il lavoro che si è fatto in anni recenti sul San Giovannino capitolino e Doria-Pamphilj come sul San Francesco di Carpineto Romano e di Santa Maria della Concezione. Le indagini radiografiche effettuate e gli studi correlati hanno sancito l'esistenza di un solo dipinto autografo all'interno delle coppie esaminate. Sul Ragazzo morso dal ramarro si è invece preferito soprassedere. Se si ha la pazienza di andare a confrontare le radiografie della tela longhiana con quelle londinesi, rese note già nel 1992 da Mina Gregori, non sarà difficile giungere a conclusioni analoghe a quelle suggerite nel volume. Solo nella tela inglese infatti è possibile leggere quella prima sbozzatura a biacca presente nelle opere autografe, ricca di rifiniture in punta di pennello a disegnare la frutta e le foglie in fase preparatoria. Di tutto questo non vi è traccia nella tela fiorentina il cui impasto, con la biacca mescolata al resto del colore, è decisamente più denso e corposo e offre una resa tonale più calda propria di tutte le copie coeve note. Accettando tale ipotesi ne conseguirebbe lo scioglimento dell'ultimo nodo significativo rimasto, a favore della unicità di ciascuna opera caravaggesca. Che poi il Merisi possa aver sostenuto la produzione di copie di propri dipinti a scopi commerciali, probabilmente grazie alla partecipazione dell'amico e collega Prospero Orsi, è un'altra storia, ancora tutta da verificare e indagare. Certo è che le copie più interessanti e qualitativamente eccezionali, sulle quali la critica ha espresso ipotesi di autografia, appartengono tutte al periodo romano.
Riprendendo quanto sostenuto già da Wolfgang Prohaska e Denis Mahon, Schütze propone di anticipare l'esecuzione della Madonna del Rosario al 1604-1605 ponendola tematicamente e stilisticamente vicina alla Madonna dei Pellegrini. L'ipotesi è tutt'altro che da scartare; se si considera il particolare dei piedi del giovane di schiena in primo piano, l'argomentato parrebbe addirittura determinante. Si tratta degli stessi piedi che appartengono al pellegrino della pala di Sant'Agostino, identici anche nel particolare dell'alluce del piede sinistro arrossato poiché ripiegato e premuto al suolo. Se effettivamente Caravaggio non utilizzava disegni, come altri studiosi sostengono e ipotesi che personalmente non condivido, la presenza in entrambe le tele dello stesso particolare potrebbe essere giustificata solo con un'esecuzione contemporanea delle opere e non essere certo il risultato di una formidabile memoria. A mio avviso però (Caretta, 2008), di disegni Caravaggio ne utilizzava, anche se non nella maniera convenzionale; ne consegue un ancoraggio delle date un po' meno vincolante. Bisognerà attendere che si faccia luce sulla figura del donatore di sinistra per riuscire ad orientarsi sulla committenza; nel frattempo la pista dei Colonna sostenuta da Calvesi sembra l'ipotesi più interessante.
Un'ultima riflessione ci viene offerta su di un tema delicato tanto quanto quello dei doppi di Caravaggio: i rifiuti, reali o presunti, in cui incorsero le opere del Merisi. Sulla scia di Luigi Spezzaferro, Schütze individua su alcune delle opere "rifiutate" ragioni diverse da quelle addotte dai biografi del Merisi. È assolutamente condivisibile l'ipotesi che vede precettata la Madonna dei Palafrenieri dall'avidissimo cardinale Scipione Borghese, che in relativamente poco tempo riuscì a riunire nella propria collezione un cospicuo numero di opere di mano di Caravaggio, molte delle quali non commissionate direttamente all'artista. Sappiamo d'altra parte dai documenti che la Confraternita di Sant'Anna aveva alfine approvato la vendita del dipinto "non essendo stata de danno alla compagnia, ma piuttosto utile, havendolo hauto il cardinal Borghese per cento scudi". Non furono a mio parere rifiutate le tavole Contarelli-Sannesi, non lo fu, ritengo, la prima versione del San Matteo e l'angelo già a Berlino. Su quest'opera Schütze è disposto a credere ad un ripensamento a cui fu invitato il pittore, il tutto nel giro di pochissimo tempo dalla commissione avvenuta nel febbraio del 1602. Come già sottolineato da Spezzaferro e Bologna, le profonde divergenze nello stile e nelle dimensioni rispetto alla successiva versione ne lasciano supporre una diversa datazione, che ritengo possa essere anticipata rispetto alla decorazione della cappella Contarelli. Il volto del santo presenta connotati totalmente differenti sia dai laterali sia dalla successiva pala d'altare; esso non sembra ravvisabile neanche nella prima versione del Martirio di San Matteo visibile in radiografia. La fisionomia adottata, quella del Socrate / Sileno, è la stessa riproposta in un disegno con volto d'uomo di mano di Giovanni Ambrogio Figino, che Caravaggio dovette aver visto a Milano; l'intero impianto compositivo (purtroppo non è nota la componente cromatica) presenta evidenti debiti, come tutte le prime opere romane, con l'opera di quei maestri che il Merisi elesse a riferimento: da Figino, a Peterzano, ai veneti fino a Raffaello. Tutte evidenze proprie delle opere giovanili ma sempre più rare a partire dalle grandi commissioni romane. Ad un certo punto Caravaggio abbandonò soggetti e modelli derivanti dalla sua formazione, che forse più degli altri lo hanno reso famoso e imitato, per inventare un nuovo linguaggio sia pittorico sia formale. Tutto questo proprio in concomitanza alle prime importanti commissioni pubbliche in San Luigi dei Francesi e in Santa Maria del Popolo. Unico vero rifiuto fu probabilmente la Morte della Vergine, presto finita nelle collezioni dei Gonzaga dopo essere stata esposta per una settimana ad una "folla di ammiratori".
Non rimane spazio per ulteriori considerazioni ma il libro, didascalico per il grande pubblico, offre interessanti osservazioni personali anche alla comunità scientifica. Le immagini consentono una lettura delle opere di Caravaggio che neanche una visione dal vero spesso riesce a soddisfare.
Paola Caretta