Rene Pfeilschifter: Die Spätantike. Der eine Gott und die vielen Herrscher (= C.H. Beck Geschichte der Antike; 6156), München: C.H.Beck 2014, 304 S., 8 Kt., 6 s/w-Abb., ISBN 978-3-406-66014-6, EUR 16,95
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Johannes Preiser-Kapeller: Jenseits von Rom und Karl dem Großen. Aspekte der globalen Verflechtung in der langen Spätantike, 300 - 800 n. Chr., Wien: Mandelbaum 2018
In questo agile volumetto Rene Pfeilschifter offre al lettore una sintesi originale e vivace del periodo storico che è ormai diventato di uso corrente designare come Tarda Antichità. La questione della periodizzazione di quest'età, che è stata oggetto di un vivace dibattito negli ultimi anni, è sinteticamente ricordata nel capitolo introduttivo (Am Ende der Antike: Kontinuität und Untergang) e nell'Epilogo (Die Spätantike als Epoche). L'Autore propende evidentemente per una delimitazione cronologica della Tarda Antichità che si potrebbe definire "tradizionale", vale a dire dall'ascesa al trono di Diocleziano all'inizio dell'espansione araba (284-641 d.C.). I quattro, agili capitoli in cui il libro è articolato (Diocleziano, la tetrarchia e i cristiani; il quarto secolo; il quinto secolo e le grandi migrazioni; il sesto e il settimo secolo, 518-641: imperatore e Impero) presuppongono come chiave di lettura e di interpretazione la storia religiosa, ovvero il dispiegarsi del cristianesimo come componente decisiva di una nuova organizzazione politica e sociale. Da quanto l'Autore suggerisce nell'epilogo si direbbe che sia stato ispirato nel suo lavoro dalla consapevolezza che, per chi vive all'inizio del XXI secolo, i rapporti tra Stato e Chiesa, un tema centrale nella Tarda Antichità e tale da influenzare le epoche successive, rivestono un interesse secondario. La religione stessa è di fatto relegata a una questione di scelta personale.
In certo qual modo la prospettiva suggerita dal titolo del libro, in cui si fa riferimento al successo del monoteismo di cui il cristianesimo è portatore in contrapposizione alla pluralità di sovrani che caratterizza la Tarda Antichità, contraddice l'interpretazione del regno di Costantino data da Eusebio di Cesarea che presupponeva una sorta di equivalenza tra un unico dio e un unico imperatore. E' dunque comprensibile che la storia propriamente evenemenziale abbia uno spazio relativamente ridotto. Il libro, per il quale non ci sono veri paralleli nella bibliografia moderna e che presuppone un'idea tutto sommato originale di Tarda Antichità, si apprezza in particolare per una serie di valutazioni e di considerazioni meritevoli di segnalazione. L'Autore prende in considerazione (85) la problematicità dell'eredità di Costantino rispetto alla politica ecclesiastica, tutt'altro che univoca. L'imperatore aveva sottoscritto i dogmi scaturiti dal concilio di Nicea e approvato in un primo tempo la condanna di Ario. Tuttavia, dopo aver esiliato Eusebio di Nicomedia, uno dei principali sostenitori di Ario, lo fece richiamare, reintegrandolo nella chiesa dopo la sua parziale accettazione del credo niceno. A essere esiliato fu quindi l'irriducibile oppositore di Ario, il vescovo Atanasio di Alessandria, che fu mandato a Treviri. Ario morì a Costantinopoli nel 336 ma la sua dottrina gli sopravvisse. E per i sostenitori del credo niceno il fatto che Costantino fosse battezzato in punto di morte da Eusebio di Nicomedia fu certo un evento difficilmente accettabile. La disputa successiva relativa al credo religioso, che divampò soprattutto nell'Oriente di lingua greca, finì per condizionare la linea politica di Costanzo II che era un sostenitore dell'arianesimo. La decisione presa all'inizio del regno dei figli di Costantino di richiamare dall'esilio tutti i vescovi suona come un tentativo di riconciliazione in una congiuntura evidentemente ricca di incognite. Lo stesso Atanasio poté rientrare ad Alessandria. Pfeilschifter sottolinea come Costanzo II abbia convocato nel corso del suo regno sei grandi concili, dai quali si attendeva consenso per il proprio credo. Ripeteva così l'esperienza fatta dal padre ma in realtà creava le basi per un coinvolgimento sempre maggiore del potere imperiale nelle dispute interne alla Chiesa.
Si apriva in questo modo la lunga epoca degli imperatori, almeno in Oriente, direttamente impegnati nelle controversie religiose. Nel IV secolo la contesa riguardò i Niceni e gli Ariani. Nei due secoli successivi non meno aspre furono le dispute se Cristo avesse una o due nature con l'esito finale della perdita dell'unità della fede. Si poneva così in modo ineludibile il problema dei termini in cui si dovesse porre il rapporto tra imperatore e Chiesa: lo Stato divenne per la Chiesa un'autorità effettiva, centralizzatrice benché ad essa esterna; la Chiesa, a sua volta, aveva una parte diretta, anche se non autonoma, nell'esercizio di un certo potere temporale. In realtà l'imperatore non poteva restare neutrale perché egli fungeva da garante e da architetto dell'unità della Chiesa. Non a caso i concili ortodossi, non diversamente da quelli eretici, celebravano unanimemente il sovrano "custodito da Dio" attribuendogli una serie di appellativi altisonanti, quali quello di "maestro della fede", "nuovo Paolo", "isoapostolo". E' da considerare come il vescovo possedesse una propria legittimazione ma, in particolare a Costantinopoli, la presenza della corte e delle élites politiche gli precludeva la possibilità di avere un ruolo effettivo anche nelle questioni secolari. L'imperatore non considerava necessario tenere in sistematica considerazione il potere spirituale o acquisirne il consenso.
La questione religiosa conosce peraltro esiti diversi nella storia dell'Impero bizantino. Pfeilschifter ricorda (192-193) come un imperatore nel complesso di successo come Anastasio, che regnò per ventisette anni (dal 491 al 518), non riuscì a porre fine allo scisma degli Acaciani. Procopio di Gaza rivolgendosi ad Anastasio nel suo panegirico mette in evidenza come questi fosse stato eletto per essere vescovo prima che imperatore e che riuniva in lui quanto vi è di più prezioso tra gli uomini, vale a dire il potere imperiale e la sapienza di un sacerdote. Ci furono due sollevazioni popolari a Costantinopoli e un'insurrezione di un comandante militare nei Balcani ma alla pace religiosa non si arrivò.
Uno dei temi fondamentali di discussione che deve affrontare chi si occupa di Tarda Antichità riguarda il diverso destino conosciuto dagli Imperi di Oriente e di Occidente e le ragioni della sopravvivenza del primo. Pfeilschifter ha riflessioni apprezzabili nel quinto capitolo a proposito del significato di Costantinopoli come capitale imperiale e le sue conseguenze per "ein werwandeltes Imperium", di cui cambia radicalmente l'articolazione politica insieme alla cartina geografica. Costantinopoli rappresentò, per la sua collocazione geografica, per la robustezza delle sue mura, un fattore importante di stabilità. Alarico, Attila, Teoderico nulla poterono contro i suoi bastioni. Le distruzioni provocate dalle invasioni barbariche che colpivano altre parti dell'Impero non misero di fatto in pericolo il trono imperiale. La differenza con l'Occidente appare indubbiamente rilevante. Onorio risiedette a Milano sino al 402 e, quindi, quando la città fu minacciata dai Goti, trasferì la propria residenza nella meglio difendibile Ravenna. Questa città rimase quasi ininterrottamente residenza imperiale per quarant'anni. Tuttavia essa rimaneva una città di provincia, poco popolata, priva di istituzioni civili al di fuori della corte. In particolare era priva del senato che, malgrado il suo declino politico, continuava a essere rappresentativo degli interessi dell'elite politica.
Questo libro risulta ben organizzato e strutturato e realizza l'obiettivo di dare una presentazione, a un tempo sintetica e puntuale, della Tarda Antichità e rappresenta senz'altro un utile contributo alla ricerca sul periodo. Tra i suoi meriti c'è quello di aver eluso la questione della "long Late Antiquity", evocata a suo tempo di Peter Brown, a favore dell'indicazione dell'eredità che questo periodo ha lasciato, in forme diverse, all'Occidente e all'Oriente, ivi compreso il mondo slavo. Alla fruibilità del libro avrebbe peraltro giovato che l'Autore avesse rinunciato completamente alle note, in tutto 41 che occupano poco più di una pagina (274-275), e che consistono quasi tutte in essenziali riferimenti a fonti (i pochissimi casi di menzioni di opere moderne sono resi complicati perché il lettore è costretto a ritrovare l'opera citata nella bibliografia articolata sulla base dei vari capitoli).
Arnaldo Marcone