Emmanuel Plantade / Daniel Vallat (éds.): Les savoirs d'Apulée (= SPUDASMATA. Studien zur Klassischen Philologie und ihren Grenzgebieten; Bd. 175), Hildesheim: Georg Olms Verlag 2018, 403 S., ISBN 978-3-487-15638-5, EUR 98,00
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L'argomento è nuovo ed il volume prende in considerazione numerosi problemi spesso trascurati dalla critica. Essi sono raggruppati in tre sezioni: "Savoirs pratiques", "Savoirs spirituels" (compresi i "savoirs" filosofici) e "Savoirs intertextuels". Il metodo delle ricerche è vario: alcuni studiosi indagano con rigore filologico i "savoirs", altri contributi, invece, sono più prolaliai che contributi scientifici, o comunque si ispirano a nuovi modelli, non sempre convincenti.
Applicano un metodo scientifico alcune ricerche nuove, come quella, nella parte dedicata ai "Savoirs pratiques", sulle conoscenze tossicologiche di Apuleio (Sébastien Barbara), quella della conoscenza della lingua greca da parte di Apuleio (Ilaria Ottria) e quella sulle conoscenze giuridiche di Apuleio (Mustapha Lakhlif) (questo si basa un po' troppo sulle ricerche precedenti), quella sul significato dell'asino vicarius in metam. 8,26 e 10,13 (Marianne Béroud). Superficiale e generico, invece, il contributo di Sonia Sabnis sulla "epistemology of slavery", la quale propone (111-112) una nuova interpretazione dei rapporti tra Fotis e Lucio, ispirati ad una rivalsa della schiava nei confronti di Lucio, uomo libero, cosa di cui Apuleio non parla affatto.
Nell'ambito dei "savoirs spirituels" si distingue la ricerca - rigorosa ed informata - di Anna Motta sulla biografia di Platone nella tradizione platonica, mentre tale rigore non si trova in quella di Hippolyte Kilol Mimbu, su 'L'Ane d'or 11,15-16 et le Nouveau Testament, Actes 2,1-16" (40), sui saperi religiosi in Apuleio. Ciononostante questo contributo è vivace ed interessante, e ha il pregio di opporsi alla "communis opinio" sulle Metamorfosi, che si è instaurata dopo il saggio di J. J. Winkler, che esclude ogni significato religioso. In un suo lavoro precedente aveva studiato il rito di iniziazione ai misteri di Iside, proponendo la seguente tesi: "Qu'adviendrait-il à une personne immédiatement après sa mort ou au seuil de celle-ci? À cette question, les cultures et les traditions de l'Afrique subsaharienne n'apportent souvent que des bribes de réponses dont aucune synthèse n'a encore été faite. La Bible, en particulier le Nouveau Testament, ne fournit pas de réponse simple [...] Cette hypothèse propose une interprétation originale du rituel initiatique du culte d'Isis et Osiris secondo la narrazione di metam. 11,23". Altrettanto non si può dire degli articoli di Evelyn Adkins ("Silence and Revelation: Discourses of Knowledge in Apuleius"), che si sofferma su problemi abbastanza ovvi (il parlare, che si addice, alla scienza, ed il silenzio - che però è eloquente quanto il parlare -si addice alla religione e al culto esoterico), e, soprattutto quello di Franck Collin ("Élements d'une mythopoétique de la casuistique chez Apulée de Madaure"), generico nell'argomento e poco informato nella discussione dei problemi. In conformità a tale 'bavardage' (244-245) si discute a lungo sul termine fortunissime, che deriverebbe dal sintagma prudentiae fortunissimae di de deo Socratis 22 e che è tradotto con: "la prudence fortunissime", vale a dire: "autrement dit une intelligence assez prévoyante pour disposer, en toute connaissance de cause, au sort le meilleur". Peccato che, come è logico, Apuleio abbia detto "prudentiae fortunatissimae".
Costituisce un valido preambolo alla ricerca sui saperi di Apuleio e alla loro molteplicità, che era tipica anche della sofistica a lui contemporanea, il termine multiscius, che in Apuleio ha un valore positivo, ma non sempre, in quanto ad esso si accompagna sempre l'aspetto erudito (Nicolas Levi: sul termine si trovano, in questo stesso volume, alcune osservazioni di Evelyn Adkins a 207 n. 38 e di Franck Collin, 215). Tale svalutazione, della polymathia nei confronti della sapienza, era comune nella cultura greca del quinto e quarto secolo a.C., ma divenne ambigua in Filone di Alessandria; la esitazione di Apuleio ad attribuire alla polymathia un valore positivo sembra un po' strana in un ambiente erudito e di ostentazione, quale era stata la sofistica.
Infine tra i "Savoirs intertextuels" un posto di rilievo è naturalmente dedicato ai contributi dei due editori del volume, quello di Emmanuel Plantade ("L'inventio de Psyché et Cupidon: Apulée, lecteur de Dion de Pruse" - Psyché et Cupidon sarebbe il vero titolo) e quello di Daniel Vallat ("Savoir caché, savoir scandaleux? Apulée et l'intertexte épigrammatique de l'Apologie"). Plantade si basa su ricerche precedenti e assai recenti, contenute nel volume Apuleius and Africa, curato da Lee, Finkelpearl e Graverini (2014), nel quale si è voluto individuare la africitas - non linguistica, però - di Apuleio (sul volume si veda la recensione di V. Hunink, in BMCR [2015.04.04], recensione equilibrata, ma nel complesso troppo generosa nei confronti delle nuove tesi, che vogliono distinguersi da quelle "dei filologi dell'epoca coloniale" [così Plantade, 299] ma che appaiono azzardate e non convincenti). Non esistono, a nostro parere, vere caratteristiche di africitas in Apuleio, dopo tre secoli di dominazione (e acculturazione romana) (poco significato ha l'affermazione di Nicolini, 2011, 31-34, che l'attenzione poco naturale di Apuleio alla lingua è dovuto al suo bilinguismo dell'infanzia: su quali testimonianze si basa? questo vale anche per gli altri scrittori africani? O anche non africani?). Plantade riprende le tesi esposte nel volume precedente e sostiene che la novella di Psiche e Amore ha un parallelo (ma di che genere?) nell'orazione 1 (ove si parla di una 'vecchia', come una vecchia racconta la 'novella' apuleiana) e nell'orazione 5 di Dione di Prusa: Dione introduce un mito 'libico', analogo a quello berbero di Apuleio. Del resto (308), Apuleio "prende alla lettera l'espressione 'anus', consacrata dalla letteratura filosofica, in cui il termine è spesso polemico [...]". Sarebbe, infatti, "tout à fait naturel" ritenere che Dione fosse conosciuto da Apuleio, in quanto Dione e Apuleio furono "quasi contemporanei", l'uno essendo morto all'incirca quando l'altro nasceva ...
Ed infine Daniel Vallat conclude il libro con una ricerca che è una fantasmagoria, divertente a leggersi, ma poco cauta e assolutamente non scientifica, di citazioni di epigrammi osceni (di Catullo, dei Priapea e di Marziale). Essa risponde al criterio (anche qui, naturalmente, intertestuale, come è necessario ai nostri giorni), di trovare nelle parole di Apuleio riferimenti non espliciti, e quindi trasformati in modo da apparire "seri", a testi osceni di quegli autori, per cui Apuleio avrebbe risposto ai suoi accusatori facendo riferimento in modo 'prude' a quei testi osceni.
Alcuni contributi sono stampati in modo accurato, mentre in altri il francese è spesso errato e il greco ancora di più: una revisione editoriale più attenta sarebbe stata utile.
Claudio Moreschini